TORINO. Il grande Julio Velasco in un video che è stato visto centinaia di migliaia di volte la definisce la cultura degli alibi. “Tutti possono spiegare perchè non si è riusciti a fare una cosa, pochi riescono a farla lo stesso” è il suo credo per rifuggere dal tentativo di attribuire il motivo di un nostro fallimento a qualcosa che non dipende da noi. In questo ultimo mese, contemporaneamente alla sarabanda di campionati mondiali che ci terranno compagnia per tutto agosto ed oltre, è riesplosa la mania tutta italiana di attribuire ad altri fattori le sconfitte.
Iniziamo dalla sfortuna. Nello sport la sfortuna può colpire solo quando si ha a che fare con un mezzo meccanico – si pensi a Marco Aurelio Fontana che perse il sellino nella prova olimpica di Mountain Bike eppure seppe vincere comunque una medaglia – o con competizioni che si protraggono nel tempo ove le condizioni ambientali possano cambiare (pedane più o meno asciutte, differenti condizioni di visibilità nello sci). In tutti gli altri casi possiamo urlare che la sfortuna non esiste. Perdere una medaglia per un decimo di punto o una qualificazione per un centesimo di secondo significa solamente avere fatto peggio dell’avversario ma in Italia si sprecano i titoli che parlano di sfortuna. Se poi si arriva, come nei giorni scorsi, all0 schermidore (inutile fare il nome, non vuole essere un attacco personale) che in vantaggio di 14-12 in 8 secondi riesce a dilapidare il vantaggio e ad uscire sconfitto e invoca la malasorte il bicchiere è colmo.
Se non c’è la sfortuna, anzi prima della sfortuna, ci si guarda intorno per capire se si può accusare l’arbitro o il giudice di turno che in virtù di un qualche complotto avrebbe sfavorito il nostro atleta. Abitudine acquisita dal mondo calcistico e spesso trasmessa dall’eccessivo entusiasmo di cronisti che faticano a dire ‘abbiamo meritato di perdere’. Ora, seguiamo lo sport in modo consapevole da almeno 35 anni e in questo lasso di tempo le situazioni nelle quali gli arbitri hanno avuto un effetto sostanziale sui risultati crediamo si possano contare sulle dita di una mano. Viene in mente la “mafia” poi sgominata e punita dei giudici del Pugilato a Seul 1988, lo scandalo che coinvolse il pattinaggio su ghiaccio alle Olimpiadi di Salt Lake City e poco che non sia da considerarsi normale amministrazione, ovvero normali errori in cui chiunque può incorrere. Ma l’appassionato sportivo medio che si avvicina due volte l’anno a discipline complesse dal divano di casa si sente in dovere di scrivere pagine e pagine sui social network denunciando complotti ogni qual volta l’azzurro di turno esce sconfitto.
State tranquilli, nello sport vince il più forte in quel momento (tralasciamo l’importante discorso dell’alterazione delle prestazioni), senza se e senza ma e impariamo a dire “Sono stati più forti”, “Si sono allenati meglio” invece di cercare alibi.
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