E’ stato pubblicato il 30 luglio, ma ha raccolto l’interesse della stampa solo ora, il consueto rapporto predisposto dalla Wada, l’Agenzia Mondiale Antidoping, che raccoglie i dati sui risultati dei test antidoping condotti nel 2012. Diventando pubblico, il rapporto ha suscitato qualche trionfalismo ingiustificato costruito su due basi: l’aumento del 10% rispetto all’anno precedente dei test effettuati (circa 185.000 per gli sport olimpici) e la base percentuale di positività riscontrate, 1.831 poco meno del 1%. Per rimanere su di un livello di coerenza di analisi, si cerchino i dati relativi all’Atletica Leggera: 27.836 campioni di urine o di sangue esaminati, 413 risultati positivi o che hanno richiesto ulteriori analisi. Poco meno dell’1.5% che include al suo interno anche tutte le positività dovute a situazioni nelle quali gli atleti hanno ottenuto regolare esenzione terapeutica.
Il confronto di questi due dati dimostra il fallimento del sistema di controlli e di regolamentazione così come sono attualmente svolti. Le ragioni sono molteplici; fino a quando i controlli si baseranno sulla rilevazione della singola molecola continueranno ad esserci in circolazione prodotti non misurabili, sostanze la cui rilevazione è resa estremamente difficile dal ridotto tempo di permanenza nei fluidi umani e molecole non ricercate. Qualche esempio può aiutare: l’EPO viene ricercata nelle urine dove scompare dopo qualche giorno, ben prima che vengano a cessare i suoi effetti sulle prestazioni. Ne consegue che i 12 casi di positività rilevate su 5.042 campioni (un misero 0.24%) sia un dato senza alcuna significatività. La principale analisi svolta attraverso i campioni di sangue, soprattutto per il suo costo relativamente basso, è quella relativa all’ormone della crescita che ha un tempo di eliminazione ridottissimo. Risultato (sempre parlando di Atletica Leggera): 3.267 test, un campione anomalo peraltro relativo al riesame con nuove tecniche del caso del 2011 relativo alla velocista bulgara Inna Eftimova.
Se questi sono i dati e le conclusioni sono facilmente tratte, l’unico strumento di reale lotta al doping è l’adozione a tutto campo del passaporto biologico, la determinazione attraverso una serie di test a sorpresa del profilo individuale di un’atleta sulla base di alcuni marcatori e la conseguente analisi legata ad evoluzioni che lascino sospettare interventi esogeni al loro manifestarsi. Questi scostamenti determinano un legittimo sospetto di assunzione di sostanze o di utilizzo di pratiche illecite che possono essere verificati con analisi mirate più sofisticate. Al momento, il passaporto è utilizzato solo attraverso marcatori che forniscono il profilo ematico, utile a determinare la manipolazione atta a migliorare il trasporto dell’ossigeno. L’Atletica e il Ciclismo lo hanno già implementato, anche se, rimanendo sempre alla prima, la raccolta di 3.360 campioni in un anno paragonata al fatto che solo ai Campionati Mondiali di Mosca hanno partecipato quasi 2.000 atleti e che sono richiesti controlli regolari lascia intendere che l’ambito di utilizzo non sia ancora ottimale. Altre discipline come il Tennis hanno dichiarato di volerlo adottare. E soprattutto le regole della WADA consentono la definizione di passaporti anche per altre rilevazioni come quelle relative agli effetti dell’uso di anabolizzanti. Sta alle singole Federazione Internazionali e alle Agenzie Antidoping locali lavorare per la loro implementazione.
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