Le dolorose confessioni di Jan Ullrich. L’ex ciclista tedesco, vincitore del Tour de France nel 1997, ha rilasciato un’intervista alla rivista Stern in cui ha ripercorso una carriera segnata dal doping nel ciclismo.
Il doping: una pratica molto diffusa
Ullrich non ha lasciato molto spazio alle interpretazioni. Ha spiegato che quando è approdato nel ciclismo professionistico, il doping era già molto diffuso. E ha aggiunto qualcosa di sportivamente agghiacciante: ai suoi tempi la percezione generale era quasi legata alla necessità di doparsi: “Senza alcun aiuto era come andare a una sparatoria con un coltello”. Ullrich ha scoperto molto presto che il doping era diffuso. Per sua stessa ammissione, una volta preso atto del suo talento e della continuità di rendimento, non è passato molto prima che gli si dicesse quanto fosse necessario, per restare ad alti livelli, ricorrere a sostanze dopanti. Ullrich si unì all’allora iconica Telekom nel 1995 e divenne il primo corridore del suo paese a vincere il Tour de France due anni dopo. Ullrich, la cui vita apparirà in un documentario su Amazon Prime la prossima settimana, non ha ammesso esplicitamente di essersi dopato: “L’atteggiamento generale era: se non lo fai, come sopravviverai in una gara? Poi entri nel gruppo e sai che probabilmente se sei uno di quelli che non hanno preso nulla, non avrai alcuna possibilità”.
I rapporti con il medico Fuentes
Ullrich è stato sospeso dalla sua squadra nel 2006 per i suoi legami con il medico antidoping spagnolo Eufemiano Fuentes e squalificato per due anni dalla Corte Internazionale di Arbitrato dello Sport (CAS) nel 2012. Principalmente per ragioni legali, non ha parlato di doping nel 2006 o un anno dopo, quando altri ciclisti della Telekom hanno ammesso di essersi dopati. Nel 2006 Ullrich dichiarò che “non voleva essere un traditore” e un anno dopo dovette affrontare un procedimento penale: “I miei avvocati mi hanno consigliato di rimanere in silenzio. Ho seguito il loro consiglio, ma ne ho sofferto a lungo le conseguenze”, ha confessato. Anni dopo ha cambiato prospettive: “Riosservando tutto dal punto di vista di adesso, avrei dovuto parlare. Sarebbe stato molto difficile per un breve momento, ma poi la vita sarebbe stata più facile. Non volevo dire mezze verità, tanto meno tutta la verità. Il mio sostentamento e quello della mia famiglia, così come quello dei miei colleghi, dipendevano da questo”. Doveva scegliere: o demolire tutto, oppure non dire niente. E ha scelto la strada del silenzio. Rotto solo dopo 20 anni. Meglio tardi, che mai.